lunedì 13 dicembre 2010

Scripta manent...

Una costante che ho sempre manifestato è che tanto più sono triste tanto più sento il bisogno di scrivere; forse per questo nella quotidianità di un diario non ho mai durato a lungo,mentre si potrebbe ripercorrere la mia vita seguendo il filo degli sfoghi annotati ai margini dei miei libri,le frigne scarabocchiate su foglietti volanti o le lettere che non ho mai spedito dopo ogni cotta non corrisposta,ogni relazione finita male o dopo ognuno degli abbandoni in cui sono incappata.
Niente come avere il cuore spezzato per scoprire di avere un sacco di roba da scrivere!
Piuttosto naturale e comprensibile:in fondo quando siamo felici siamo troppo impegnati a viverci quella sensazione di pienezza per soffermarci ad analizzarla o per lasciarne memoria. Si,logico.....eppure è una cosa che mi ha sempre manda in bestia questa!
Una volta maturata questa consapevolezza ho anche tentato una controffensiva e mi sono sforzata di lasciarmi dietro le tracce dei giorni buoni sui soliti pizzini volanti.
Seminavo.
Avrei poi potuto raccogliere nei giorni tristi.
Salvo poi scoprire che non è affatto piacevole rileggere gli aneddoti dei momenti in cui eri in piena grazia di Dio,specie se,come regolarmente succede,lo fai quando ti senti come il gattino della pubblicità della barilla,piccolo solo e bagnato.
Così son giunta alla conclusione che questo meccanismo sia una medicina,un'autodifesa: i promemoria dei momenti schifosi servono a ricordarti in seguito che sono finiti.
Ne avrai altri,magari peggiori,ma ricorderai che sono destinati a passare.
Chi ti dice che il dolore che provi ora un giorno non ti farà sorridere come il rileggere,dal diario di scuola delle medie,la disperazione per la cotta paurosa che avevi per quel ragazzino occhialuto a cui non piacevi e di cui non ricordi più il nome?
Si tratta di aspettare con fiducia....meglio se attrezzati con una buona stecca di cioccolato e un bel film!

giovedì 2 dicembre 2010

Storia di una panchina

C’era una volta una panchina,in un parco.

Questa panchina aveva accolto molti più culi di tutte le altre panchine di quel grande parco perchè si trovava nell’area recintata riservata ai cani,perciò,a qualunque ora,in qualunque stagione e con qualsiasi condizione meteorologica,molti erano coloro che si avventuravano fin lì per permettere ai propri animali di scorrazzare liberi senza il rischio di venir multati.

Gli avventori rappresentavano una variegata gamma di umanità,eterogenea per età,reddito o stato civile,ma tutti,trasvelsalmente,condividevano il gusto dello scambiarsi gli aneddoti più curiosi e divertenti (anche se spesso le storie non rispecchiavano nessuno di questi due requisiti!) delle meravigliose avventure dei loro amici a quattro zampe.

Portare un cane al parco non implica nulla più che questo:portarcelo. Pertanto,nell’attesa,altro non restava che accomodarsi sulla panchina e chiacchierare con chi la stava dividendo con noi.

Intanto la panchina ascoltava.

Spesso si annoiava;trovava superficiali quelle conversazioni monotematiche e provava un fastidio acuto per le ridicole interpretazioni che gli umani attribuivano al comportamento dei loro animali:se un cane ti riporta la palla non significa che è il caso di valutare se mandarlo all’università cinofila per coltivarne l’acutissima intelligenza,vuole solo giocare! E se scappa quando capisce che gli vuoi fare il bagno non sta cercando di dimostrarti che non riconosce la tua autorità:non gli piace l’acqua!E se ti ignora perchè non fai che blaterargli addosso mille comandi impossibili (coi congiuntivi?!?manco le persone li sanno usare ormai!) non va riaddestrato:gli hai rotto i coglioni,ha ragione lui e il riaddestramento dovresti farlo tu!

Ci furono periodi difficili,in cui avrebbe voluto cambiare mestiere,ma la panchina sentiva di dover pazientare:era certa che un giorno avrebbe avuto da svolgere un compito importante,qualcosa a cui dedicare i propri talenti e che proprio per questo,nell’imperscrutabile disegno del destino,era stata delineata in quell’esatta
forma e messa lì.

Come spesso accade,quando quel giorno arrivò,lei non se l’aspettava.

Pioveva fitto fitto e un vento autunnale spazzava le foglie degli alberi intorno; non sembrava una di quelle giornate in cui c’è molto lavoro.

Invece ecco arrivare tre coppie,da tre diversi lati del parco,curvi nei loro k-way.

Si accomodano,convenevoli,presentazioni...tutto regolare insomma...non fosse che per il fatto che presto,anzi prestissimo,smettono di parlare di cani.

E questo non a favore di politica,gossip,attualità,o peggio ancora futili luoghi comuni infarciti di proverbi stantii....no,hanno voglia di raccontarsi chi sono,cosa provano,la trama tortuosa di eventi che li ha resi felici e infelici.

Sono storie di battaglie,sanguinarie e dense di lacrime,per o contro la vita.

La panchina ascoltava incredula. Che ne era del riserbo,dell’ipocrisia,della privacy?

Ascoltò sgomenta la storia di un aborto in un brutto incidente d’auto che costò caro non solo al cuore ma anche al corpo della futura mamma. Della fine del matrimonio che ne conseguì,dei rimpianti,dei rimorsi,dei sensi di colpa.

Le sue flessibili assi di legno si irrigidirono alla rivelazione di un tumore che prima parve sconfitto e poi,perfido,tornò a tiranneggiare un corpo che avrebbe solo voluto,un giorno,poter custodire un’altra vita dentro di sè;insindacabile ambizione femminile a cui le circostanze non concessero udienza.

E percepì un’ondata di paura alla confessione di una depressione che,ciclica come le stagioni,tentatrice come un vizio al quale sia impossibile resistere,sussurrava all’orecchio l’estrema fuga come unico modo perchè cessasse un intimo,insondabile,folle dolore.

Gli uomini non osarono intromettersi in quel fiume in piena che sgorgava dalle loro tre compagne e,tra l’impotenza e la solidarietà,rimasero in silenzio tentando di sciogliere i nodi della loro frustrazione.

Intanto i cani giocavano.

Non sapevano di aver fatto ai loro beniamini il regalo prezioso dell’averli fatti incontrare.

Non si sarebbero lasciati più.

Avrebbero continuato di lì in poi a condividere le vittorie e le sconfitte con cui la vita obbliga a misurarsi,avrebbero continuato ad ascoltarsi,a proteggersi,a preoccuparsi,a seppellirsi gli uni gli altri così come da una famiglia ci si aspetterebbe.

Da quel giorno la panchina capì che solo il timore di esporsi al giudizio rendeva le altre conversazioni tanto superficiali:la meraviglia,la possibilità di legarsi,di imparare reciprocamente,di sentirsi accolti,di salvarsi in fondo,era insita in ognuno dei suoi ospiti. Si trattava solo di aiutarli a mettere sul piatto il malloppo,quel grumo di emozioni che da sempre ognuno di noi si scarrozza per il mondo,spendendo così tante energie a nasconderselo dentro da dimenticarne il perchè.

Per i decenni che seguirono la panchina si impegnò ad aiutare i proprietari dei culi che le sedevano sopra a dialogare tra loro;vide sfoghi,liti,molte risate,qualche lacrima. Assistette allo sbocciare di alcuni amori,al finire di altri.

Quello sciamare di umanità acquistò per lei un valore immenso,il contributo che aveva imparato ad offrire la gratificò e la elevò a qualcosa di molto più speciale di una semplice panchina.

Si sentì avvolgere dalla tenerezza quando,dopo tanti anni,capì che tutti,ma proprio tutti,in fondo in fondo,avevano bisogno delle stesse cose e che lì avrebbero potuto trovare ciò che era necessario mettere in valigia in quel viaggio pieno di incognite che è la vita.

Da allora in poi,la panchina,non desiderò mai più cambiare mestiere.